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Riprendiamo in mano le redini della globalizzazione:la sovranità attraverso l’integrazione europea

Contributo di Benoît Cœuré, Membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, allo Schuman Report on Europe 2018, 28 marzo 2018

Negli ultimi anni la globalizzazione e la cooperazione internazionale hanno suscitato forti reazioni[1]. In Europa, la Brexit e l’euroscetticismo hanno rimesso in discussione il concetto stesso di Unione europea come costruzione politica basata sulla condivisione della sovranità, sulla libera circolazione attraverso i confini e sull’integrazione economica nel rispetto di un quadro normativo comune. Allo stesso tempo, negli Stati Uniti i benefici del libero scambio sono stati apertamente messi in dubbio. La percezione generale era che, in questo clima, l’Europa fosse quella più a rischio. Anche se gli Stati Uniti dovessero tirarsi indietro dal processo di globalizzazione, l’integrità stessa del paese non ne risentirebbe. In Europa, invece, l’UE e l’impegno a favore di valori condivisi e di una società aperta sono inscindibili sotto molti punti di vista.

Di recente è migliorato il sentimento generale nei confronti dell’UE grazie al rafforzamento della crescita e alla diminuzione della disoccupazione. In base all’ultima indagine di Eurobarometro[2], in Europa sette persone su dieci si considerano ora cittadini dell’Unione europea, il livello più elevato mai registrato per questo indicatore. Ancor più significativo è il fatto che ad oggi tre cittadini dell’area dell’euro su quattro si dichiarino a favore dell’euro, il massimo dal 2004. In Europa un numero crescente di persone è ottimista riguardo al futuro dell’Unione e la percentuale degli intervistati che reputano l’UE “un luogo di stabilità in un mondo tormentato” si colloca ora al 71%, in aumento di cinque punti percentuali dal 2016.

Dobbiamo cogliere questa opportunità per consentire all’Europa di segnare un ulteriore passo avanti. In caso contrario, presto o tardi il progetto europeo si potrebbe trovare di nuovo a rischio. La motivazione per agire è evidente: i timori di fondo dei cittadini riguardo ai rischi dell’apertura non si sono realmente dissipati. Il miglioramento delle prospettive economiche può aiutare a lenire queste paure, che tuttavia riemergeranno in tempi difficili. L’Unione europea è in grado di dare una risposta che può resistere alla prova del tempo. Infatti, pur subendo la minaccia delle opposizioni alla globalizzazione, l’UE può al tempo stesso proporre un modo per gestirla. Del resto, non è la prima volta che la globalizzazione si trova sotto processo: il primo dopoguerra aveva già dimostrato che in assenza di regolamentazione i mercati mondiali potevano precipitare nella spirale del protezionismo e del nazionalismo. La conclusione da trarre è che l’integrazione transfrontaliera è sostenibile soltanto se disciplinata e organizzata da istituzioni che salvaguardino la stabilità del sistema economico e finanziario, assicurino pari condizioni, dirimano le controversie e incoraggino la solidarietà tra i membri. Questo è precisamente ciò che l’UE offre ai cittadini d’Europa: un mezzo per sostenere un ordine internazionale aperto, assicurando al tempo stesso che i risultati rispondano al loro volere.

Considerare seriamente i timori riguardo alla globalizzazione

La globalizzazione e l’apertura dei mercati preoccupano i cittadini d’Europa e del mondo essenzialmente per quattro motivi.

La prima fonte di preoccupazione riguarda la stabilità: la globalizzazione ha reso i paesi più vulnerabili alle ripercussioni negative di fenomeni esterni e alle crisi internazionali? Questo vale per settori come l’agricoltura, l’industria farmaceutica e le biotecnologie, ma forse risulta molto più evidente per i flussi internazionali di capitali (ovvero la globalizzazione finanziaria). Dalla crisi finanziaria asiatica della fine degli anni ’90 alla crisi finanziaria globale della fine del primo decennio del 2000, fino alla crisi del debito sovrano dell’area dell’euro all’inizio del decennio 2010, l’integrazione finanziaria internazionale ha sistematicamente innescato e amplificato gli shock. Tra il 1945 e il 1980, in un dato anno un paese al mondo su cento attraversava in media una crisi bancaria; si è passati a un paese su cinque nel periodo compreso tra il 1980 e il 2008, che ha visto crescere considerevolmente l’integrazione finanziaria internazionale[3].

La seconda fonte di apprensione riguarda le condizioni di equità: tutti i paesi rispettano le stesse norme e gli stessi standard? Questo interrogativo si pone in modo evidente a livello mondiale; si pensi alle accuse di manipolazione dei cambi o pratiche di dumping, oppure ai timori di una rincorsa alla riduzione degli standard ambientali e sociali. Paure di questo tipo si sono manifestate in Europa riguardo alla libera circolazione delle persone e dei lavoratori distaccati.

Le disuguaglianze sono il terzo motivo di preoccupazione. Sono in molti a pensare che l’apertura dei mercati abbia avvantaggiato i ricchi e i capitalisti a scapito dei poveri e dei lavoratori. Le catene globali del valore (ovvero la distribuzione delle catene produttive su più paesi) avrebbero ridotto il potere di contrattazione dei lavoratori. In base all’evidenza empirica sembrerebbe anche che la globalizzazione finanziaria sia stata associata a un incremento delle disuguaglianze di reddito all’interno dei singoli paesi[4]. I dati OCSE mostrano che negli ultimi vent’anni nei paesi ricchi i redditi da lavoro in rapporto al reddito nazionale si sono ridotti per il 99% dei percettori di redditi più bassi, mentre sono aumentati del 20% per l’1% dei percettori di redditi più elevati[5]. Analogamente, con l’integrazione mondiale gli individui e le imprese possono eludere più facilmente il fisco sfruttando le scappatoie internazionali. Si è erosa la base imponibile per le società a causa dei prezzi di trasferimento all’interno delle catene del valore, mentre la concorrenza fiscale tra i paesi ha innescato una corsa al ribasso in termini di aliquote[6]. Una questione al centro di un acceso dibattito tra gli economisti è attualmente la seguente: le disuguaglianze di profitto derivanti dagli scambi internazionali possono essere tutte risolte attraverso trasferimenti sociali oppure occorre cambiare le regole del gioco a livello globale[7]? Tutti si troverebbero comunque d’accordo su un punto: le entrate che sono venute meno a causa dell’elusione fiscale e dell’ottimizzazione fiscale avrebbero aiutato i governi quanto meno a mitigare gli effetti distributivi avversi della globalizzazione[8].

Infine, la quarta fonte di preoccupazione riguarda la democrazia. In molti si chiedono se il mercato aperto sia veramente soggetto al controllo democratico. Poiché i mercati internazionali si estendono oltre i confini degli Stati-nazione, diventa meno chiaro da chi siano governati. Alcuni temono che a causa dell’apertura le autorità elette abbiano ceduto sovranità agli investitori internazionali o alle multinazionali, ad esempio attraverso i meccanismi di risoluzione delle controversie investitore-Stato. La cooperazione internazionale tra governi democraticamente eletti ha riacquistato vigore in seguito alla crisi finanziaria mondiale (soprattutto nel contesto del G20), anche se, al di là della risposta immediata alla crisi, è rimasta sostanzialmente circoscritta alla regolamentazione finanziaria (e in tempi più recenti alla cooperazione in materia fiscale). Anche in presenza di chiare strutture di controllo democratico (come nel caso dell’UE), alcuni politici ne hanno criticato l’eccessiva distanza dalla vita dell’elettorato e sono riusciti a ottenere consensi promettendo di riprendere il controllo attraverso la reintegrazione di poteri a livello nazionale.

Alcuni di questi timori si basano più su percezioni che su fatti. La maggiore sensibilità agli shock finanziari e le crescenti disparità di reddito potrebbero essere, ad esempio, imputabili a una serie di altri fattori, fra cui il cambiamento tecnologico[9], con un’interconnessione sempre più stretta fra questi processi[10]. Tuttavia, così come è opportuno evitare reazioni eccessive alle critiche sulla globalizzazione, altrettanto importante è mantenere una certa umiltà, riconoscendo che la globalizzazione solleva questioni di fondo in termini di condizioni di equità, stabilità, uguaglianza e democrazia, questioni che vanno discusse seriamente e, se necessario, affrontate attraverso politiche pubbliche efficaci.

Riconquistare la sovranità

Alcuni suggeriscono che la soluzione sia trincerarsi dietro i confini nazionali. Questa opzione è destinata a fallire per due ragioni. In primo luogo priverebbe i popoli dei benefici economici degli scambi commerciali e dell’integrazione. In base a una stima, il PIL pro capite dell’UE sarebbe inferiore di ben un quinto senza il processo di integrazione avvenuto a partire dal 1950[11]. Più di 30 milioni di posti di lavoro nell’UE (cioè uno su sette) dipendono dalle esportazioni verso il resto del mondo[12]. In secondo luogo, la rinazionalizzazione di determinate politiche non consentirebbe ai paesi di sfuggire alla concorrenza mondiale: l’isolamento dalle catene globali del valore accrescerebbe i prezzi degli input, ridurrebbe la competitività delle esportazioni e l’interesse degli investitori, finendo per indebolire l’economia sia dal lato dell’offerta che dal lato della domanda. Allo stesso modo, un paese che si ritirasse dalla cooperazione internazionale non si sottrarrebbe alla concorrenza fiscale e probabilmente risulterebbe meno efficace nella lotta all’evasione.

La storia ci insegna che esiste un’unica soluzione. Ogni volta che in passato la globalizzazione è sfociata in eccessi e ha dato luogo a un ripiegamento nel protezionismo, si è giunti alla conclusione che la globalizzazione non è sostenibile senza istituzioni forti. Le Nazioni unite e quanto ne è derivato (ad esempio il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’Accordo generale su tariffe e commercio) hanno rappresentato una risposta diretta alla spirale protezionistica del periodo tra le due guerre. Analogamente, il G5 è il risultato della crisi petrolifera degli anni ’70, mentre il G20 è nato dalla crisi finanziaria asiatica degli anni ’90, per poi essere investito di un nuovo ruolo di salvaguardia del commercio mondiale e rafforzamento dell’architettura finanziaria globale in seguito al crollo di Lehman Brothers. Tuttavia, in termini di gestione della globalizzazione la costruzione politica più avanzata e meglio riuscita è stata di gran lunga l’Unione europea.

I padri fondatori dell’UE hanno concepito un metodo di gestione collettiva delle sfide poste dall’apertura dei mercati, evitando di trincerarsi dietro le frontiere nazionali. Hanno dotato gli Stati membri di una piattaforma unica che consentisse loro di riprendere il controllo di alcuni poteri sovrani erosi dalla globalizzazione. Anziché dover scegliere tra apertura e sovranità, i paesi hanno potuto riconquistare la sovranità condividendola all’interno delle istituzioni europee[13]. In altre parole, l’Unione europea dà una risposta regionale al “trilemma politico” reso celebre dall’economista Dani Rodrik[14], secondo cui non è possibile perseguire simultaneamente democrazia, sovranità nazionale e integrazione economica.

Ciò non significa che l’Unione europea sia perfetta. Le molteplici crisi che ha dovuto affrontare negli ultimi anni hanno posto in evidenza numerosi problemi da risolvere sul piano dell’efficacia e della legittimità. Tuttavia, l’UE ha retto un ordine aperto nel continente europeo per più di sessant’anni. Dal 1960 l’Europa occidentale registra una crescita cumulata del PIL pro capite in termini reali che supera di un terzo quella degli Stati Uniti. Inoltre l’Europa ha accumulato una maggiore ricchezza in percentuale del reddito annuo (più del 500%) rispetto agli Stati Uniti (400%)[15]. Al tempo stesso, ha dato prova di maggiore consapevolezza riguardo al problema della sostenibilità, ad esempio assumendo un ruolo di primo piano nella promozione di accordi internazionali sul cambiamento climatico nel contesto dell’ONU, dal Protocollo di Kyoto all’Accordo di Parigi. Se incontriamo uno scoglio, non dobbiamo rimettere in causa l’Unione europea e tutto ciò che ha permesso di realizzare; al contrario, dobbiamo impegnarci per costruire istituzioni politiche migliori a livello europeo, che rispondano direttamente ai timori dei cittadini dell’UE e guidino la globalizzazione nella direzione che essi auspicano, tenendo conto delle quattro considerazioni esposte in precedenza.

Riconciliare integrazione economica e condizioni di equità

È probabilmente negli sforzi profusi per creare condizioni di equità nell’integrazione economica, cioè per assicurare che tutti si conformassero alle stesse regole e agli stessi standard, che l’Unione europea ha ottenuto i maggiori risultati. In questo ambito il contributo fondamentale dell’UE consiste nell’avere stabilito pari condizioni attraverso le proprie disposizioni legislative e le proprie istituzioni preposte ad assicurarne il rispetto, in particolare la Corte di giustizia dell’Unione europea. Questa è la migliore garanzia possibile che l’apertura non vada a scapito della concorrenza leale e della protezione dei consumatori. Inoltre, dato l’obbligo vigente per le esportazioni verso l’UE di rispettare gli standard da essa definiti e viste le dimensioni del mercato europeo (l’Unione rappresenta il primo partner commerciale per non meno di 80 paesi), l’UE tende a influenzare gli standard in uso anche in altre parti del mondo (cosiddetto “effetto Bruxelles”)[16]. L’UE, con i suoi poteri normativi, non soltanto può evitare che la globalizzazione precipiti in un’inevitabile rincorsa alla riduzione degli standard, ma può di fatto favorire un processo virtuoso di innalzamento degli standard a livello mondiale, che a lungo termine potrà soltanto giovare alla globalizzazione stessa.

La lealtà della concorrenza in relazione alla libera circolazione dei lavoratori è stata al centro di crescenti polemiche. Anche in questo caso, tuttavia, l’Unione europea ha istituito un quadro di riferimento, che può ulteriormente sviluppare, per conciliare mobilità e condizioni di equità. I sistemi di protezione al centro del modello sociale europeo sono stati progressivamente iscritti nella legislazione europea, in particolare attraverso la Carta dei diritti fondamentali. Inoltre, quando si configurano manifestazioni più sottili di compressione salariale, il quadro di riferimento dell’Unione consente alle autorità nazionali di fissare salari minimi e limiti agli orari di lavoro nell’ambito delle rispettive giurisdizioni. Peraltro, su temi controversi (ad esempio quello dei lavoratori distaccati) le disposizioni legislative dell’UE sono state modificate sulla scorta di un intenso dibattito politico.

In Europa l’equità degli scambi commerciali è stata anche favorita dalla moneta unica, che ha rafforzato la salvaguardia della concorrenza leale, precludendo la possibilità di cicli ricorrenti di svalutazioni concorrenziali delle monete nazionali. In questo modo sono stati dissipati i timori di manipolazione dei cambi, si è ridotta la tentazione del protezionismo e il mercato unico ne ha tratto beneficio. Non essendo più possibile ricorrere alla svalutazione, i paesi dell’area dell’euro devono affrontare qualsiasi problema di competitività alla radice.

A volte questa può sembrare una medicina amara, poiché i necessari aggiustamenti possono richiedere una forma più sottile di svalutazione attraverso la compressione dei salari. Molti paesi dell’area dell’euro hanno imboccato questa via per cercare di riacquistare competitività in termini di costo in seguito alla crisi finanziaria mondiale e la maggior parte di essi ha già registrato un pieno recupero. Sarebbe tuttavia opportuno approfondire la riflessione sul possibile sviluppo di strumenti europei per assicurare che i sistemi di sicurezza sociale impediscano a tali aggiustamenti di aggravare la povertà e compromettere la crescita nel lungo periodo. Ciò contribuirà a sostenere il progetto europeo nei paesi che devono affrontare simili aggiustamenti, in particolare nel contesto dei programmi di assistenza finanziaria. Gli strumenti a disposizione dell’Europa per contrastare le crisi risultano notevolmente potenziati grazie alla creazione del Meccanismo europeo di stabilità (MES), ma permangono lacune significative in assenza di uno strumento di sostegno finanziario per i sistemi di sicurezza sociale nei paesi destinatari di un programma o della possibilità di stanziare fondi rilevanti dal bilancio dell’UE.

Proteggere l’Europa dall’instabilità

Per quanto riguarda il mercato dei beni e servizi, l’Unione europea è stata fondamentale nell’assicurare che l’integrazione economica fosse percepita come sicura e quindi sostenibile. La convergenza della regolamentazione per gli standard applicabili a beni e servizi, unitamente a un approccio comune nella sorveglianza sui mercati, ha sostenuto la fiducia nell’apertura dei mercati all’interno dell’Europa, come anche la capacità dell’UE di rispondere rapidamente al profilarsi di rischi per la protezione dei consumatori. Il mercato interno dei prodotti alimentari surgelati, ad esempio, è riuscito a superare lo scandalo del 2013, concernente la vendita di carne equina dichiarata come bovina, soprattutto grazie a un miglioramento dell’etichettatura dei prodotti e a un sistema di ispezioni a livello dell’EU che hanno ripristinato un clima di fiducia. Al contrario, la percezione di una mancanza di convergenza sul piano della regolamentazione tra UE e paesi terzi, in particolare sul piano della sicurezza alimentare, è motivo di opposizione agli accordi commerciali preferenziali, come il partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP).

Nel settore finanziario, fino a tempi recenti il contributo dell’UE a un’integrazione stabile è stato più limitato. Abbiamo imparato a nostre spese che forme di instabilità possono emergere da un’unione monetaria incompleta, così come da mercati dei capitali integrati in assenza di un livello analogo di integrazione sul piano della regolamentazione e della vigilanza del settore finanziario. Tuttavia, negli ultimi anni l’Europa ha compiuto importanti passi avanti in questo ambito. Ha istituito il MES, che, con una capacità di prestito di 500 miliardi di euro (appena inferiore a quella dell’FMI per la sua azione su scala mondiale), può intervenire in aiuto degli Stati membri confrontati da vincoli di liquidità. Altrettanto ampia è stata la portata della decisione di creare un’unione bancaria allo scopo di mitigare il rischio di crisi bancarie sistemiche. L’80% degli attivi bancari nell’area dell’euro è ormai soggetto alla vigilanza europea e disponiamo di un meccanismo unico per la risoluzione dei dissesti bancari. Per la prima volta abbiamo realizzato una governance autenticamente sovranazionale del settore bancario, basata su un corpus unico di norme, e siamo quindi certi che non si verificherà un livellamento verso il basso dal punto di vista della regolamentazione.

Tuttavia non bisogna abbassare il livello di guardia. I rischi per la stabilità finanziaria, inclusa la nuova dimensione della cybersicurezza, richiedono un’attenzione continua. L’instaurazione di un’unione dei mercati dei capitali è ancora agli albori e richiede il superamento di sfide particolarmente complesse sul piano giuridico (ad esempio per quanto riguarda l’armonizzazione, se non l’unificazione, delle normative fallimentari nazionali). Occorre inoltre completare l’unione bancaria assicurando che i contribuenti, la clientela e i depositanti siano protetti da meccanismi di difesa europei perfettamente solidi. Si discute anche della possibilità di conferire una capacità di bilancio all’area dell’euro, con punti di vista differenti riguardo al fatto che debba fungere soprattutto da meccanismo di protezione e strumento per la tutela degli investimenti in tempi di crisi, essere volta principalmente alla stabilizzazione del ciclo economico, oppure finanziare la fornitura di beni pubblici in via permanente. Al tempo stesso il dibattito riguarda anche il modo appropriato di assicurare la responsabilità democratica. Se da un lato è importante compiere le scelte giuste e impegnarsi per ripristinare margini di bilancio a livello nazionale, dall’altro non si dovrebbe aspettare all’infinito per progredire verso una stabilizzazione di bilancio più centralizzata[17].

La solidità del nostro quadro di riferimento per la risoluzione delle crisi non sarà messa veramente alla prova finché non scoppierà la prossima grande crisi, ma i segnali che abbiamo già osservato sono incoraggianti. Il sistema finanziario europeo è riuscito a superare le turbolenze che hanno scosso i mercati finanziari mondiali nel 2015 e agli inizi del 2016, mentre lo shock del voto a favore della Brexit è stato assorbito senza danni visibili. Fondamentalmente, il cammino intrapreso dall’Europa rappresenta finora il tentativo più avanzato di riconciliare i benefici dell’integrazione finanziaria transfrontaliera, in termini di condivisione dei rischi e accesso al finanziamento, e i suoi potenziali inconvenienti.

Promuovere un’integrazione all’insegna dell’uguaglianza

Per quanto riguarda il terzo punto (fare in modo che l’integrazione sia all’insegna dell’uguaglianza), finora il ruolo delle politiche a livello dell’UE è stato meno enfatizzato. La ragione principale è che gli Stati membri dispongono già dei sistemi previdenziali nazionali più ampi e articolati al mondo. Come ha rilevato la Cancelliera Merkel in numerose occasioni, l’Europa rappresenta il 7% della popolazione del pianeta, il 25% del PIL mondiale e il 50% della spesa per la previdenza sociale. Se da un lato i sistemi previdenziali richiedono numerosi aggiustamenti per risultare sostenibili dal punto di vista economico, dall’altro forniscono una solida base per proteggere coloro che risultano penalizzati dalla globalizzazione. Di fatto, la storia ci insegna che la sostenibilità della globalizzazione spesso dipende dal rafforzamento dello Stato sociale.

L’erosione della base imponibile e il trasferimento degli utili delle imprese mettono a dura prova la capacità ridistributiva degli Stati membri, ma l’Unione europea dispone di un considerevole vantaggio potenziale: nessuna grande impresa, neanche la Apple, può minacciare di abbandonare completamente il più grande mercato mondiale. Di fatto, la Commissione europea utilizza già strumenti di politica della concorrenza per rispondere a possibili arbitraggi fiscali da parte delle multinazionali, mentre la proposta di una base imponibile consolidata comune per le società è in grado di precludere l’elusione fiscale attraverso il trasferimento degli utili all’interno dell’Europa. In entrambi i settori le istituzioni europee possono fare leva sulle grandi società, in un modo che non sarebbe possibile per i singoli paesi.

Con il passare del tempo, per l’Unione europea sarà essenziale definire la misura in cui il suo ruolo ridistributivo diretto debba essere rafforzato. Nel 2007 è stato creato il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione per coadiuvare i lavoratori e le imprese nel processo di transizione, ma risente di risorse troppo limitate e di un eccesso di burocrazia. Il Fondo sociale europeo, che dispone di risorse molto più ingenti, si è dimostrato efficace nel supportare il reinserimento dei cittadini nel mercato del lavoro. Vi è ragione di sostenere che questi due programmi vadano ampliati ulteriormente, in termini di scala e di portata[18].

Assicurare la legittimità democratica

Sotto molti punti di vista l’UE conferisce ai suoi cittadini un controllo democratico sulla globalizzazione maggiore rispetto a quanto sia consentito ai cittadini di altre parti del mondo. Rispetto ad altre zone di libero scambio, l’Unione europea possiede una struttura politica molto più avanzata: le decisioni concernenti l’insieme dell’UE sono adottate congiuntamente dai rappresentanti eletti a livello nazionale che si riuniscono nel Consiglio dell’Unione europea e dal Parlamento europeo eletto a suffragio diretto. Inoltre, le sue competenze in materia di concorrenza e di regolamentazione finanziaria permettono all’UE di assicurare ai suoi cittadini un maggiore controllo sulle multinazionali e sui mercati finanziari. Un’Europa unita, che parla con una sola voce a livello mondiale, è anche più efficace nel comunicare le proprie preferenze sul piano commerciale, nonché in termini di standard finanziari, tributari, sociali e ambientali.

Occorre tuttavia consolidare la governance e la legittimità democratica. Il MES e le decisioni sui programmi di assistenza finanziaria si basano, ad esempio, su accordi intergovernativi che non ricadono nella sfera di responsabilità democratica del Parlamento europeo. Ciò può generare l’impressione che siano state trasferite competenze a livello europeo, mentre di fatto queste continuano ad essere esercitate in ampia misura dagli Stati membri.

Di conseguenza, gli organismi intergovernativi, come il MES, dovranno infine essere integrati nei Trattati dell’UE per migliorare sia il controllo democratico, sia i mezzi e la percezione di condivisione delle competenze e del processo decisionale. Se ciò non accadrà, rischiamo che le sfide comuni continuino ad essere viste in una prospettiva nazionale, conducendo inevitabilmente a una frammentazione del dibattito democratico europeo e alimentando le divisioni che minano gli sforzi tesi all’attuazione di politiche europee efficaci[19].

L’assenza di uno spazio pubblico autenticamente europeo rende più ardua tale evoluzione. Eppure, ironicamente, proprio la globalizzazione potrebbe venire in aiuto dell’Unione europea. La diffusione delle tecnologie digitali, soprattutto fra i giovani, potrebbe finire per agevolare un dibattito di natura diversa sul ruolo dell’Europa, meno incentrato sul piano nazionale.

***

La sfida per l’Unione europea è preservare i contratti sociali all’interno dei paesi in un contesto di globalizzazione, il che richiede di fatto un contratto sociale fra i paesi. Questo è ciò che offre l’UE a livello europeo, attraverso i suoi poteri sul piano legislativo, esecutivo e giudiziario. Se questi poteri saranno ben utilizzati e se si apporteranno miglioramenti anche al quadro economico, sociale e giuridico di ciascun paese a livello nazionale, l’UE potrà dare un contributo decisivo alla sostenibilità della globalizzazione, entro e oltre i confini europei.

In questo modo l’UE potrebbe anche compiere notevoli passi avanti verso la risoluzione dei suoi problemi di legittimazione popolare. Se riuscirà a valorizzare maggiormente la propria capacità di ricondurre la globalizzazione alla volontà democratica, e se potrà essere riformata in modo da realizzare appieno il suo potenziale, non vi è ragione per cui parte della percezione negativa che attualmente la circonda non si possa rapidamente dissipare. È incoraggiante che i leader europei lavorino alla definizione di una visione di maggiore integrazione per affrontare le sfide comuni a livello mondiale. Malgrado i messaggi lanciati da pessimisti e disfattisti, questo potrebbe essere il momento dell’Europa. Dobbiamo cogliere questa opportunità, e farlo senza indugio.

  1. [1] Chopin, T. e Foucher M. (a cura di), Schuman Report on Europe, State of the Union 2018, Lignes de Repères, 2018. Desidero ringraziare Jean-François Jamet, Jonathan Yiangou e Sander Tordoir per il loro contributo a questo articolo. La responsabilità delle opinioni in esso contenute rimane esclusivamente mia.

  2. [2] Cfr. Eurobarometro standard n. 88, condotto dalla Commissione europea tra il 5 e il 19 novembre 2017.

  3. [3] Cfr. Reinhart, C. e Rogoff, K., This Time Is Different: Eight Centuries of Financial Folly, Princeton University Press, 2009.

  4. [4] Cfr. Jaumotte, F. et al., “Rising Income Inequality: Technology, or Trade and Financial Globalization?”, IMF Economic Review, vol. 61(2), 2013, pagg. 271-309.

  5. [5] Cfr. OCSE (2012), Employment Outlook 2012.

  6. [6] Cfr. Devereux, M. et al., “Do countries compete over corporate tax rates?”, Journal of Public Economics, vol. 92(5-6), 2008, pagg. 1210-1235.

  7. [7] La prima ipotesi corrisponde alla teoria classica degli scambi, in base alla quale i proventi derivanti dal commercio internazionale sono soggetti a disparità di distribuzione (ad esempio, tra lavoratori qualificati e non qualificati), ma queste possono essere pienamente corrette per mezzo di trasferimenti forfettari. Per un’illustrazione della seconda ipotesi, cfr. Rodrik, D., “Too late to compensate free trade’s losers”, Project Syndicate, 11 aprile 2017.

  8. [8] Cfr. anche Bourguignon, F., “Inequality and Globalization”, Foreign Affairs, gennaio/febbraio 2016, pagg. 11-15.

  9. [9] Cfr. Jaumotte, F. et al. (2013), op. cit.

  10. [10] Cfr. Baldwin, R., The Great Convergence: Information Technology and the New Globalization, Belknap Press: An Imprint of Harvard University Press, 2016.

  11. [11] Cfr. Badinger, H., “Growth Effects of Economic Integration: Evidence from the EU Member States”, Review of World Economics, vol. 141, n.1, 2005, pagg. 50-78.

  12. [12] Cfr. Rueda-Cantuche, J.M. e Sousa, N., “EU Exports to the World: Overview of Effects on Employment and Income”, DG Trade Chief Economist Notes, n.1, Commissione europea, febbraio 2016.

  13. [13] Cfr. Chopin, T., “Defending Europe to defend real sovereignty”, Policy Paper n. 194, Notre Europe – Jacques Delors Institute and Robert Schuman Foundation, 25 aprile 2017.

  14. [14] Cfr. Rodrik, D., The Globalization Paradox: Democracy and the Future of the World Economy, W.W. Norton, 2011.

  15. [15] Fonte: World Wealth & Income Database.

  16. [16] Cfr. Bradford, A., “The Brussels Effect”, Northwestern University Law Review, vol. 107(10), 2012, pagg. 1-63.

  17. [17] Cfr. Cœuré, B., “A budgetary capacity for the euro area”, dichiarazione introduttiva in occasione di un’audizione pubblica dinanzi al Parlamento europeo, Bruxelles, 2 marzo 2016.

  18. [18] Cfr. Bénassy-Quéré, A. (2017), “Jobs Union”, in Bénassy-Quéré, A. e Giavazzi, F. (a cura di), Europe’s Political Spring: Fixing the Eurozone and Beyond, Vox EU eBook, 31 maggio.

  19. [19] Cfr. Cœuré, B., “Drawing lessons from the crisis for the future of the euro area”, intervento nel quadro della “Ambassadors’ Week”, Parigi, 27 agosto 2015.

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