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Intervista al Corriere della Sera

Intervista con Luis de Guindos, Vicepresidente della BCE, realizzata da Federico Fubini il 13 giugno 2019

Il 5y5y forward sul tasso d’inflazione è ai minimi storici e chiaramente al di sotto di dov’era quando per la prima volta Mario Draghi accennò all’allentamento quantitativo (QE) nel 2014. La Bce ha già preso misure di accomodamento e Draghi stesso ha detto che all’ultimo Consiglio direttivo si è tenuta una discussione interessante sui diversi strumenti con cui se ne potrebbe fare di più: il programma di acquisto di attività (APP) e altri. Cosa avete bisogno di vedere prima di decidere di fare di più?

“Ciò che dobbiamo vedere è un venir meno dell’ancoraggio delle aspettative d’inflazione. Non è ancora successo, malgrado la caduta nelle aspettative di mercato. Se lei guarda al sondaggio sulle attese degli analisti (la Survey of Professional Forecasters), la situazione è leggermente diversa: le aspettative sono rimaste stabili. Poi dobbiamo vedere se ci sarà un ulteriore calo significativo dell’attività economica – un cristallizzarsi dei rischi al ribasso che abbiamo indicato. Noi possiamo sempre cercare di guardare in avanti per farci un’idea di ciò che potrebbe accadere, ma alla fine la realtà è la realtà. E allora stiamo a vedere cosa succede. Ma credo che la parte importante della nostra posizione sia che siamo completamente pronti a reagire. Avremo tempo di conoscere il futuro quando arriverà”.

Questo significa che il vostro orientamento attuale è quello giusto, se le previsioni dei vostri esperti si confermano?

“Sì. Se ci sarà un ulteriore deterioramento, a quel punto reagiremo. Ma per ora, il nostro orientamento di politica monetaria è pienamente compatibile sia con l’inflazione che con i livelli di attività reale dell’economia. La cosa che conta è che siamo totalmente pronti a reagire. E aggiungerei un altro elemento, se posso: i rischi sono orientati al ribasso”.

Intende dire, in termini di attività reale?

“Sia in termini di attività reale che di inflazione. Quindi se quei rischi si concretizzeranno, reagiremo”.

Lei ha in mente uno strumento di politica monetaria per affrontare ogni problema diverso? Per esempio se c’è una questione sul tasso di cambio i tassi ufficiali probabilmente sono la risposta; se c’è un problema di attività reale, allora è il QE; e se è la trasmissione della politica monetaria, allora sono le operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (TLTRO)?

“Non facciamo un’allocazione dei diversi strumenti sui diversi obiettivi. Ciò che penso sia importante, ma a volte un po’ trascurato, è che la politica monetaria non è la panacea. Se c’è un problema di stabilità dei prezzi, questo rientra nel nostro mandato. Ma c’è qualcosa che tutti dovrebbero tenere presente per evitare di creare aspettative irrealizzabili: non abbiamo la pietra filosofale”.

Sta cercando di dire che sarebbe bene avere un mix di politiche, monetaria e fiscale, anche nel totale rispetto dell’indipendenza della Bce?

“Certo. Ma il mio punto è che ovunque ci sia una questione aperta, per esempio con le dispute commerciali, allora c’è un problema economico reale che avrà conseguenze reali. Puoi certamente attenuarne l’impatto con la politica monetaria, ma non sarai mai in grado di affrontare e risolvere questo tipo di problemi con essa. Il ruolo della politica monetaria è la stabilità dei prezzi. E per garantirla, dobbiamo monitorare l’evoluzione dell’economia reale: la domanda interna, la domanda estera, il tasso di cambio e il resto. Ma non si possono risolvere tutti i problemi economici del mondo con la politica monetaria”.

Di recente il presidente Draghi ha accennato che se ci fosse un rallentamento dell’economia e i rischi dovessero concretizzarsi, la politica di bilancio potrebbe avere un ruolo da svolgere.

“Certo, sicuro. È il mix di politiche. Certo c’è la politica monetaria, e infatti siamo stati i grandi protagonisti dal 2012. La politica monetaria è stata l’elemento chiave all’origine della ripresa dell’attività e dell’occupazione, fra le altre cose. Ma non è l’unica politica esistente. La politica di bilancio deve giocare un ruolo, come anche le riforme strutturali. E nel caso della politica di bilancio, non è solo questione del livello del deficit nominale, è anche la composizione: la qualità delle finanze pubbliche”.

Sta dicendo che la quota di investimento pubblico su Pil, che è rimasta piatta al 2,6% durante gli anni del QE, potrebbe aumentare?

“Non è neanche solo l’investimento pubblico. Oggi uno dei problemi in Europa è la bassa produttività, causata dal fatto che non si sta investendo abbastanza in istruzione, ricerca e sviluppo e in infrastrutture pubbliche. Ma le infrastrutture pubbliche non sono un elemento di stabilizzazione. Per esempio, quando si inizia a costruire una strada, il progetto viene consegnato molto tempo dopo, quando il ciclo economico potrebbe essersi di nuovo invertito. Ma l’istruzione e la ricerca e sviluppo sono leve che vanno usate. Allo stesso tempo, penso sia importante guardare alla composizione della tassazione e al suo impatto sulla crescita di lungo periodo e sulla produttività”.

Cioè bisognerebbe avere una tassazione più bassa sul lavoro, compensata da altre aree della base fiscale?

“Dipende; non c’è una ricetta unica. Ma non si può prendere la struttura fiscale che abbiamo oggi come un fatto compiuto. Si dovrebbe usare una combinazione che tiene conto anche di nuovi elementi, per esempio il cambiamento climatico. Tutti questi aspetti vanno presi in considerazione. Per questo la politica di bilancio è così importante, non conta solo il livello del deficit nominale”.

Quindi, quando lei e il presidente Draghi andate agli incontri dell’Eurogruppo o dell’Ecofin, avete idee da condividere con i ministri su questo?

“Certo. Quando andiamo all’Eurogruppo e all’Ecofin siamo pienamente coordinati, anche sulle questioni di bilancio”.

I rendimenti dei titoli di Stato dell’Italia e della Spagna erano a livelli molto simili durante la crisi. Oggi lo spread fra Bonos e BTP sulle scadenze decennali è di oltre 180 punti-base. Come crede si spieghi la divergenza: con la situazione di bilancio, i tassi di crescita, il rischio di ridenominazione?

“In primo luogo, non voglio fare confronti fra la Spagna e l’Italia. Ma, concentrandomi sull’Italia, credo che il principale problema sia da tempo la crescita molto bassa. L’Italia non è ritornata ai livelli di Pil che aveva nel 2008”.

Quale crede che sia la ragione?

“Credo che ci siano due elementi. Il primo è il livello estremamente alto di debito pubblico, che è una spada di Damocle che pende sulla testa. Secondo, c’è un problema di riforme strutturali. Ma nell’economia italiana ci sono pro e contro. I contro sono una crescita lenta, il debito pubblico, una mancanza di riforme strutturali e dunque una bassa crescita della produttività. Ma l’Italia ha anche dei vantaggi che dobbiamo riconoscere. Il primo è che ha un surplus di partite correnti. La posizione patrimoniale netta sull’estero è buona e questo riduce la vulnerabilità dell’economia. E quando uno guarda alla situazione di bilancio nel tempo, non è stata male perché l’Italia ha avuto un avanzo primario quasi tutti gli anni. Non è molto facile riuscirci, dunque è un precedente molto buono, soprattutto in confronto ad altri Paesi. Dunque si torna al problema della bassa crescita, che ci porta immediatamente alle questioni delle riforme strutturali, delle barriere all’ingresso nel mercato, dell’efficienza nel mercato del lavoro… Cose che qualche volta sono un po’ trascurate”.

Non c’è niente di male nel confrontare l’Italia e la Spagna per com’erano nel giugno-luglio del 2012. La situazione era molto simile.

“Eramo molto vicini. Eramo sull’orlo…”

Era la stessa situazione e i due Paesi presero due strade diverse. La Spagna decise di accettare un programma europeo per le banche, mentre l’Italia s’impegnò a farcela da sola. Crede che quelle decisioni spieghino la divergenza economica fra i due Paesi da allora?

“Di nuovo, non voglio fare un confronto diretto. La situazione in Spagna nel 2012 era diversa: il governo aveva una maggioranza assoluta in parlamento, per quello fummo fortunati. E la pulizia delle banche fu profonda. Non fu facile; fu sanguinosa, glielo posso assicurare. Ma la facemmo e, dopo, riuscimmo a gestire una questione come Banco Popular. Neanche quello fu facile. Poi la Spagna ha guadagnato molta competitività grazie alla riforma del mercato del lavoro. Questi furono i due fattori. Ma non voglio fare un confronto con l’Italia, parlo della Spagna adesso. Nel 2013 la Spagna ricominciò a crescere e negli ultimi cinque o sei anni il Paese ha avuto una performance migliore dei suoi pari”.

Dunque lei pensa che per la Spagna concentrare il prima possibile quegli sforzi abbia funzionato?

“Sì, credo di sì. In Spagna c’era un governo con una maggioranza assoluta, ma anche così allora fu difficile politicamente. Ma in Spagna, a prescindere da quali partiti siano al potere, l’approccio pro-europeo è garantito. Anche se si considerano le due ali estreme, Vox e Podemos”.

Neanche loro mettono in discussione l’euro?

“Magari hanno approcci diversi sulla politica di bilancio, ma non dicono che vogliono lasciare l’euro. Per niente”.

Se lei guarda al mercato dei credit default swap (CDS), la probabilità implicita che la Spagna lasci l’euro è molto, molto bassa. Nel caso dell’Italia, non è molto bassa. È possibile che parte dello spread fra Bonos e BPT sia dovuto a questo timore sulla ridenominazione riguardo all’Italia?

“Di nuovo, non è questione di fare confronti fra due Paesi. Nel caso della Spagna, le riforme principali sono state nel mercato del lavoro e la pulizia delle banche. Sono i fattori alla base della buona performance del Paese, secondo me. E sono elementi che andranno mantenuti negli anni a venire”.

Il presidente della Banca d’Olanda Klaas Knot di recente ha detto che la divergenza fra Paesi dell’area euro sta rendendo sempre più difficile il compito di definire un’unica politica monetaria che vada bene a tutti. Knot ha espresso preoccupazione per la sostenibilità di queste continue divergenze. Lei concorda?

“Non ci sono continue divergenze. C’è il caso concreto dell’Italia, che ha una performance più debole rispetto agli altri Paesi. Ma sei o sette anni fa lo stesso poteva dirsi della Spagna, della Grecia e dell’Irlanda, che ora crescono più della media degli altri. Molte cose sono cambiate. Per esempio, adesso nel 2019 la Germania sarà uno dei paesi con il tasso di crescita più basso. Eppure era la locomotiva d’Europa due o tre anni fa. Non c’è un’accumulazione di divergenze, le situazioni cambiano. Alcuni Paesi che andavano peggio della media ora vanno meglio, e viceversa. E non dipende dalla politica monetaria. La politica monetaria si deve occupare della stabilità dei prezzi e di alcuni fattori reali che possono spiegare i livelli di inflazione nell’area euro. Ma negli Stati Uniti succede esattamente la stessa cosa”.

Lei pensa che nel lungo periodo la moneta unica possa funzionare senza avere un bilancio unico per affrontare gli shock, i problemi delle banche o le questioni della competitività?

“Non credo che l’architettura dell’euro sia già finalizzata, per niente. Abbiamo fatto alcuni progressi con la creazione del Meccanismo europeo di stabilità e abbiamo lanciato l’Unione bancaria, ma questo progetto non è completo. Dobbiamo portare a termine il sistema europeo di garanzia dei depositi bancari (Edis) e abbiamo bisogno di completare l’unione dei mercati dei capitali. Sono completamente a favore di avere uno strumento finanziario di stabilizzazione. Può assumere forme diverse”.

Tipo quello che sta proponendo il presidente francese Emmanuel Macron?

“Se lei guarda a ciò che è stato concordato nel Consiglio europeo, quello è un primo passo nella direzione giusta. Ma non dovrebbe essere questo lo stato permanente di quello strumento. Può crescere e gli può essere assegnata una funzione molto chiara: la stabilizzazione anti-ciclica. Di sicuro dobbiamo condividere di più i rischi, se vogliamo migliorare la performance dell’area euro e ridurre l’onere sulla politica monetaria perché – come ho detto – quest’ultima non è la panacea. E c’è un elemento che sarà critico per compiere questi passi: la fiducia”.

Bisogna che ci sia fiducia che gli altri Paesi agiscano correttamente. Ma quando uno non lo fa, come sembra succeda oggi con l’Italia, la preoccupa che ciò possa danneggiare la fiducia?

“Nel caso dell’Italia, se guarda ai fondamentali ci sono pro e contro. L’Italia non è un’economia molto vulnerabile finanziariamente, se si tiene conto della posizione patrimoniale netta sull’estero e di altri fattori. Se lei vuole un esempio di un’economia vulnerabile, guardi alla Spagna nel 2010. Aveva un deficit esterno del 10% del Pil e una posizione patrimoniale netta negativa del 90% del Pil. Non è la situazione dell’Italia oggi. Il mio punto è che la fiducia a volte dipende dalle intenzioni politiche del governo”.

Intende dire che il governo italiano dovrebbe fornire alcuni chiari obiettivi che siano accettabili al resto del club?

“Sì, da entrambe le parti. È una partita bilaterale, dunque da entrambe le parti. Penso che sia molto difficile fare passi avanti se non si riesce a costruire la fiducia. E poiché stiamo parlando di fiducia e incertezza in tempi difficili, credo che quest’idea di discutere i mini-BOT sia stata un errore. Il presidente Draghi ha detto che se fosse una moneta legalmente utilizzabile, sarebbe illegale e che se fosse debito, allora accumulerebbe ancora più debito. Dal mio punto di vista, la conseguenza peggiore è che questo tipo di decisione distrugge la fiducia”.

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