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Un destino, un’economia e un diritto condivisi per l’Europa

Lectio Magistralis di Fabio Panetta, Membro del Comitato esecutivo della BCE, in occasione del conferimento della Laurea honoris causa in Giurisprudenza dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale

Cassino, 6 aprile 2022

Sono profondamente onorato e grato di ricevere questa Laurea honoris causa in Giurisprudenza dall’Università di Cassino e del Lazio Meridionale. Questo riconoscimento arriva a quarant’anni dalla mia prima laurea in economia, ma l’emozione è la stessa. E arriva per una materia, il diritto, che ha rappresentato una parte importante della mia esperienza lavorativa.

In qualche modo, sono da sempre uno studente di diritto.

Ho iniziato la mia carriera presso la Banca d’Italia nel 1985, e da allora ho dedicato la mia intera vita professionale alle istituzioni pubbliche.

I banchieri centrali devono agire “nell’ambito del proprio mandato”. Questo è il contrappeso della nostra indipendenza e la fonte della nostra legittimazione. Siamo al servizio della legge, e possiamo esercitare i poteri conferiti alla banca centrale per adempiere al mandato che ci è stato democraticamente assegnato.

Ho avuto il privilegio di lavorare con figure eminenti, che hanno contribuito al progresso dell’Italia e dell’Europa. Ero un giovane economista quando conobbi Carlo Azeglio Ciampi, allora Governatore della Banca d’Italia, poi Presidente del Consiglio dei Ministri e infine Presidente della Repubblica.

Come Membro del Consiglio direttivo della Banca centrale europea (BCE), mi trovo ora al centro delle politiche europee. I nostri compiti derivano dai trattati dell’Unione europea (UE), che guidano le nostre azioni, garantendo che la BCE operi sempre nell’interesse di tutti i cittadini europei. Si tratta di una missione complessa, che richiede di attuare politiche rispettose del nostro mandato e in grado di affrontare sfide che si presentano ogni giorno.

Negli ultimi quindici anni l’economia europea è stata colpita da una sequenza di shock negativi senza precedenti. Solo ora stiamo uscendo da una pandemia che ci ha tenuto lontani dalle nostre comunità – famiglie, amici, colleghi – e ha causato la chiusura temporanea di interi settori dell’economia.

E ora la guerra torna a sconvolgere il nostro continente.

Quest’ultimo evento è inquietante, perché scuote il nostro senso di sicurezza individuale e collettivo. Ci impone di riflettere su ciò che unisce i paesi europei e sui fondamenti della nostra sicurezza.

Gli shock generati dalla pandemia di COVID-19 e dalla guerra in Ucraina hanno confermato che il progetto europeo è uno di questi fondamenti.

Quando i nostri sistemi sanitari e le nostre economie hanno subito l’impatto della pandemia, sapevamo che una risposta comune europea ci rendeva più forti. E quando i principi fondamentali del diritto internazionale sono stati violati alle nostre porte, quando un paese sovrano ha subito una brutale aggressione militare, sapevamo che l’appartenenza all’UE ci avrebbe protetto, preservando la nostra convivenza pacifica.

Quello che accade in una parte dell’Europa influisce sulle altre parti. Questo era ovvio molti anni fa, quando i paesi europei erano in guerra tra loro. È vero anche oggi, in un’economia europea pacifica, aperta e integrata. E rimarrà vero quando affronteremo nuove sfide: dalle pandemie agli shock economici, dai rischi per la sicurezza al cambiamento climatico.

È per queste ragioni che i paesi europei hanno adottato obiettivi comuni e li hanno impressi nel diritto europeo. Ragioni che sono anche alla base della decisione di dar vita all’Unione economica e monetaria (UEM). Non perché norme condivise e uno spazio economico comune siano dei fini di per sé stessi, ma perché sono il mezzo per ottenere un futuro di pace, libertà e prosperità.

Ma non dobbiamo dare per scontato il successo del progetto europeo. L’Europa è emersa dalle lezioni della storia, ripetute più volte nel corso dei secoli. Al tempo stesso, il suo progresso non è stato immune da incertezze ed errori, anche nel passato recente.

Dobbiamo misurare il disegno di integrazione europea alla luce dei nostri obiettivi comuni, chiedendoci se esso risponda in maniera adeguata alle nostre aspirazioni e ai nostri bisogni collettivi.

Nel mio intervento odierno ripercorrerò i progressi della governance economica europea. Esaminerò poi le sfide che l’economia e la politica monetaria dell’area dell’euro devono affrontare nel nuovo contesto geopolitico.

1. Costruire l’unione economica europea

Nella storia, l’integrazione economica è stata spesso il risultato di guerre e prevaricazioni.

Nell’antica Roma l’integrazione faceva seguito alla conquista. I Romani diedero vita alla prima unione economica e monetaria europea di fatto al fine di amministrare e consolidare i territori che avevano conquistato. Le potenze coloniali europee fecero lo stesso nell’era moderna.

In altri casi, l’integrazione economica è stata la condizione per conseguire l’indipendenza. L’unione fiscale degli Stati Uniti è nata, alla fine del diciottesimo secolo, dalla necessità di far fronte alle riparazioni della guerra d’indipendenza contro la Gran Bretagna.

L’unione economica dell’Europa contemporanea non fa eccezione. Essa è scaturita dalle macerie delle due guerre mondiali. Ma non è stata imposta né realizzata principalmente contro un nemico comune.

Essa è nata dall’aspirazione collettiva a prevenire un’altra guerra fratricida tra gli Stati europei. Fu questo il punto di partenza della celebre dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio del 1950: “L’Europa non è stata fatta, e abbiamo avuto la guerra”. La soluzione che Schuman proponeva era un’unificazione economica che avrebbe reso la guerra “non solo impensabile, ma materialmente impossibile”.

Il progetto europeo ha avuto successo e ha garantito la pace tra i membri dell’UE. Ma l’aggressione della Russia contro l’Ucraina dimostra drammaticamente che le minacce esterne non sono scomparse.

Nel dopoguerra, la spinta verso l’integrazione europea portò nel 1951 alla creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, ispirata dalla visione di figure eminenti come Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi. Seguì, con il Trattato di Roma del 1957, la creazione di un mercato comune e di un’unione doganale, insieme a strumenti per ridurre le disparità regionali[1].

La creazione di un mercato europeo, con regole e istituzioni comuni, mirava a proteggerci dalla tentazione di chiudere le nostre economie nelle fasi di difficoltà.

Tale tentazione si è sopita ma non è scomparsa. È un rischio da cui dobbiamo guardarci anche oggi.

Lo abbiamo visto all’insorgere della pandemia, quando i paesi europei imposero limiti alle esportazioni di prodotti medici al fine di privilegiare le forniture ai propri sistemi sanitari. Questo succedeva nonostante che migliaia di persone stessero morendo nei paesi vicini per carenza di dotazioni mediche.

Fortunatamente, i leader europei riconobbero tempestivamente che tali restrizioni violavano lo spirito dell’integrazione europea e andavano contro i nostri stessi interessi collettivi, poiché nessuno può essere davvero protetto dal contagio se non siamo tutti protetti. La soluzione derivò da una strategia comune che fece fronte all’emergenza aumentando la produzione e lo scambio di forniture mediche. La stessa logica si è applicata ai vaccini, e sono certo si applicherà alle strategie, attualmente in discussione a livello europeo, per l’importazione di energia.

Dopo il Trattato di Roma, per molti anni lo sviluppo del progetto europeo ha contribuito alla crescita economica degli Stati membri. La progressiva abolizione delle tariffe doganali ha favorito la specializzazione e permesso di cogliere i benefici delle economie di scala, stimolando l’efficienza e la concorrenza e accrescendo l’occupazione e il benessere. Si stima che in assenza del mercato unico il PIL reale pro capite in Europa sarebbe oggi inferiore di un quinto[2].

La Comunità economica europea ha poi lasciato il posto all’Unione europea (UE), dando vita a uno spazio in cui i cittadini dei paesi membri possono cooperare su un ampio ventaglio di politiche in condizioni di libertà e pace.

Con l’Unione economica e monetaria (UEM), nel 1999 abbiamo compiuto un passo ulteriore. Un passo necessario per rafforzare il mercato unico. L’euro elimina il rischio di cambio, stimola il commercio e rafforza la fiducia nella stabilità dei prezzi. Dal 1999 a oggi, le esportazioni tra paesi dell’eurozona sono aumentate di oltre un quarto in rapporto al PIL[3]. L’integrazione delle imprese nelle catene del valore è tre volte più stretta a livello europeo che con il resto del mondo. L’integrazione regionale delle catene di approvvigionamento in Europa è più elevata che negli altri continenti e ha continuato a crescere negli ultimi anni[4].

Date le sue ampie dimensioni, l’UEM dispone degli strumenti necessari per reagire a shock esterni e ha la forza economica per attuare politiche autonome[5]. Essa ci consente di disporre della seconda più importante valuta a livello mondiale. Come dimostra l’esperienza delle scorse settimane, ciò rappresenta un caposaldo della nostra sovranità.

Infine, l’UEM ha una forte dimensione geopolitica, poiché cristallizza l’impegno dei singoli paesi nei confronti dell’unificazione europea. Essa rappresenta quanto di più vicino vi sia a una clausola di difesa economica comune. Un attacco contro uno dei suoi membri – compresi quelli che non appartengono alla NATO – costituirebbe un attacco a tutti gli altri, poiché colpirebbe un baluardo della nostra sovranità condivisa, la moneta[6].

Questa condivisione di sovranità assume particolare importanza in un momento in cui la moneta e la finanza sono utilizzati come mezzi di pressione per imporre sanzioni economiche. L’euro è la moneta dell’Unione, e la BCE sta svolgendo un ruolo importante nell’attuazione delle sanzioni decise dall’UE nei confronti della Russia e della Bielorussia.

2. L’Unione economica e monetaria: un processo discontinuo

Negli ultimi due decenni, il progresso dell’UEM non è stato costante. Al contrario, esso è stato discontinuo, come nel famoso detto di Jean Monnet: “L’Europa sarà forgiata nelle crisi, e sarà la somma delle soluzioni adottate per queste crisi.”[7]

Il sistema di sorveglianza economica disegnato trent’anni fa con il Trattato di Maastricht aveva l’obiettivo principale di evitare che le politiche economiche potessero minacciare la stabilità di lungo termine dell’UEM nel suo complesso.

Ma questo obiettivo è stato inizialmente perseguito soprattutto attraverso la creazione di strumenti volti a prevenire un eccesso di spesa pubblica a livello nazionale. L’area dell’euro non era preparata a gestire shock di grandi dimensioni.

2.1 Un banco di prova: la crisi finanziaria e la crisi dei debiti sovrani

I limiti di questo sistema divennero evidenti con la crisi finanziaria. In quella fase l’eurozona adottò politiche economiche inadeguate, generando un divario economico rispetto alle altre grandi economie.

Durante la crisi, le politiche fiscali – dopo aver sostenuto l’economia per un breve periodo di tempo – furono indirizzate in maniera pro-ciclica verso il consolidamento fiscale, principalmente attraverso interventi non coordinati e incoerenti con le politiche di bilancio che sarebbero state necessarie per l’economia europea. Il consolidamento fiscale pro-ciclico realizzato tra il 2011 e il 2013 provocò spinte recessive rivelatesi controproducenti anche ai fini della sostenibilità del debito.

L’onere di stabilizzare l’economia europea ricadde sulla sola politica monetaria della BCE, costringendo l’eurozona a una ripresa lenta e fragile, con danni economici e sociali per i membri dell’UEM.

Le forti tensioni che emersero in quella fase portarono alla creazione di un backstop fiscale al fine di arginare la crisi del debito sovrano, nonché all’avvio dell’unione bancaria al fine di rafforzare il sistema finanziario. Ma anche queste innovazioni istituzionali furono inizialmente insufficienti a cambiare il corso delle politiche economiche europee.

L’assistenza fornita ai paesi colpiti dalle crisi finanziaria e del debito sovrano fu associata a condizioni economiche stringenti. I programmi di assistenza finanziaria furono concepiti in equilibrio parziale a livello dei singoli paesi, senza valutarne appieno le implicazioni per l’eurozona nel suo complesso.

Anche l’avvio dell’unione bancaria non fu immune da errori. Come Membro del Consiglio di vigilanza della BCE, all’epoca criticai la decisione di accelerare l’aumento – pur necessario – dei coefficienti patrimoniali delle banche nel mezzo di una crisi, soprattutto in considerazione della natura incompleta dell’unione bancaria[8].

Le politiche pro-cicliche di quegli anni generarono contraccolpi politici. L’Europa fu inutilmente divisa tra paesi creditori e debitori, tra un nucleo centrale e una periferia, generando divisioni economiche, sociali e politiche assai profonde.

In quel difficile momento, la BCE indicò che un’altra strada poteva essere percorsa. In tre parole, il suo Presidente Mario Draghi dimostrò che, con la determinazione ad agire, l’area dell’euro poteva fornire una forte risposta alla crisi[9]. E insieme con le sue controparti istituzionali avviò la riforma dell’UEM[10].

2.2 Un cambio di paradigma: la pandemia

Ma c’è voluta un’altra crisi per fare un salto di qualità.

I leader europei riconobbero nella primavera del 2020 che una risposta fiscale forte e simmetrica che compensasse i danni economici causati dalla pandemia era nell’interesse di tutti i paesi dell’eurozona[11]. Le regole di bilancio e sugli aiuti di Stato furono sospese. E furono introdotti strumenti fiscali comuni.

In particolare, con il programma NextGenerationEU (NGEU) l’UE ha creato uno strumento fiscale europeo dotato delle risorse necessarie per sostenere la ripresa[12]. Gli interventi sono basati sui piani nazionali di ripresa e resilienza, che hanno definito programmi di riforma e di investimento coerenti con obiettivi comuni a livello europeo, quali la transizione ecologica e digitale[13]. Paesi ad alto debito, come Italia e Spagna, hanno ottenuto risorse europee pari all’11 e al 6 per cento del PIL, rispettivamente.

Una tale strategia ha creato la base per un contratto sociale europeo che permettesse di uscire dalla pandemia: i paesi dell’UE si sono impegnati a rendere più competitive le loro economie a fronte dei finanziamenti europei[14]. In questo modo non solo il programma NGEU ha migliorato le prospettive di crescita a medio termine, ma ha anche rafforzato la convergenza. Attraverso le regole per la ripartizione dei fondi, l’NGEU sta finanziando soprattutto i paesi più colpiti dalla pandemia e con un PIL pro capite inferiore alla media europea. Così facendo, esso rafforza la sostenibilità del debito e contribuisce alla convergenza fiscale[15]. E grazie al suo effetto di stabilizzazione dei mercati, esso ha favorito il rilancio dell’economia in tutti gli Stati membri.

In questa fase sono emersi due importanti cambiamenti rispetto al passato.

In primo luogo, i nuovi strumenti fiscali comuni europei sono stati esplicitamente concepiti con la consapevolezza che l’UE rappresenta ben più della semplice somma delle sue componenti. Essendo finanziato collettivamente, il programma NGEU ha ampliato i margini di intervento fiscale, al pari di quanto avviene in altre economie con il ricorso al bilancio federale. Una tale impostazione si fonda sul riconoscimento dello stretto legame che unisce le economie europee. Ad esempio, la Commissione europea stima che paesi quali il Belgio, l’Austria e la Germania otterranno la maggior parte dello stimolo impresso al PIL dal programma NGEU grazie all’incremento della domanda proveniente da altre parti dell’UE.

In secondo luogo, a livello europeo si è rafforzata la consapevolezza del fatto che le riforme possono essere attuate con maggiore efficacia in un’economia che cresce, in cui le risorse possono essere ridistribuite più agevolmente. Negli anni precedenti, la crisi del debito sovrano europeo aveva reso palese che, sebbene la responsabilità di bilancio sia essenziale, l’austerità pro-ciclica non paga. La crisi dello scorso biennio ha inoltre chiarito che l’economia dovrà adattarsi al nuovo contesto economico scaturito dalla pandemia, riallocando le risorse tra settori e tra imprese. In altre parole, è divenuto evidente che per sfuggire alla trappola della bassa crescita è necessario affiancare alle politiche di sostegno della domanda interventi volti a innalzare il potenziale di offerta dell’economia.

Anche la politica monetaria della BCE ha risposto con decisione allo shock pandemico.

Nella prima parte del 2020, la pandemia si è ripercossa assai negativamente sull’economia e sui mercati finanziari dell’eurozona. Ciò rischiava di provocare una sorta di asfissia finanziaria e di paralizzare l’attività produttiva, con perniciosi rischi al ribasso per l’inflazione.

Di fronte a questo pericolo, la BCE ha attuato misure straordinarie di ampia portata al fine di garantire favorevoli condizioni di finanziamento ai diversi settori economici in tutti i paesi dell’area dell’euro. L’intervento più significativo è stato il Programma di acquisto per l’emergenza pandemica (Pandemic Emergency Purchase Programme, PEPP), con il quale la BCE in due anni ha acquistato titoli del settore privato e pubblico per circa 1.700 miliardi di euro[16].

A differenza dei precedenti programmi di acquisto di attività condotti della BCE, il PEPP è stato dotato della necessaria flessibilità al fine di modulare gli acquisti nel tempo, tra classi di attività e tra paesi. Ciò ha consentito di intervenire più efficacemente laddove i rischi per la trasmissione della politica monetaria erano maggiori.

Le nostre misure hanno permesso a famiglie, imprese e governi di ottenere finanziamenti a tassi contenuti anche su lunghe scadenze, contrastando fenomeni di frammentazione finanziaria. Il flusso di credito bancario, che altrimenti si sarebbe interrotto, ha continuato a crescere. E i governi sono stati in grado di intervenire, compensando la perdita di reddito subita dal settore privato e fornendo garanzie che hanno permesso alle banche di finanziare l’economia reale. In questo modo, la politica fiscale ha agito di fatto come un fondamentale canale di trasmissione della politica monetaria, sostenendo la domanda e l’attività economica e annullando le pressioni deflazionistiche insorte a seguito dello shock[17].

La supervisione bancaria europea ha contribuito anch’essa alla soluzione della crisi. Le nostre misure monetarie sono state affiancate da interventi anticiclici volti ad agevolare l’offerta di credito all’economia.

2.3 Le lezioni apprese

L’esperienza dell’ultima crisi ci consegna due principali lezioni.

Innanzi tutto, situazioni che richiedono una risposta congiunta della politica monetaria e della politica fiscale possono presentarsi più frequentemente di quanto si pensasse in precedenza[18]. Durante la pandemia, la nostra politica monetaria, condotta in maniera indipendente, e le politiche fiscali si sono rafforzate a vicenda[19]. Questo ha evitato che si ripetesse la situazione che era emersa all’indomani della crisi finanziaria, quando un sostegno insufficiente alla domanda e l’amplificazione pro-ciclica delle tensioni finanziarie avevano spinto il prodotto effettivo al di sotto di quello potenziale, portando a un’elevata disoccupazione, all’instabilità finanziaria e a un’inflazione troppo bassa.

In secondo luogo, perché l’UEM funzioni davvero, le politiche europee devono essere condotte a beneficio di tutti gli Stati membri. Il nuovo modello adottato dalle autorità europee durante la pandemia ha evitato le divisioni politiche che avevamo visto in passato. Grazie ad esso, siamo riemersi dalla pandemia con un’economia più forte e con una maggiore coesione sociale. Nessun paese ha ritenuto di poter stare meglio fuori dall’UEM. Questa era e rimarrà la condizione necessaria per proseguire lungo la strada dell’integrazione europea.

Ora dobbiamo affrontare nuove sfide: dagli shock economici, ai rischi per la sicurezza, al cambiamento climatico, alla necessità di accelerare la transizione energetica. Per molti versi, questo ci riporta all’inizio del progetto europeo, quando Schuman considerava la gestione dell’offerta e l’unificazione economica cruciali per la sicurezza e la prosperità dell’Europa.

3. L’area dell’euro nel nuovo contesto geo-economico

Tutti speriamo che la guerra finisca presto, ma non è realistico aspettarsi che i suoi effetti svaniscano rapidamente. Dobbiamo quindi interrogarci sulle conseguenze per l’economia globale ed europea.

A livello mondiale, il conflitto si ripercuoterà sulla globalizzazione, sul commercio, sul ricorso alle catene globali del valore. I paesi diverranno riluttanti a ricorrere in misura ampia a importazioni di risorse essenziali – in primis, l’energia – da controparti con cui non hanno rapporti del tutto stabili.

Sarà necessario ricercare un nuovo equilibrio tra l’apertura internazionale, necessaria per preservare l’efficienza economica, e l’esigenza di affrancarci dalla dipendenza da paesi inaffidabili. È questo l’obiettivo della strategia dell’UE per una “autonomia strategica aperta”.

3.1 La Dichiarazione di Versailles: implicazioni per la governance economica europea

La Dichiarazione di Versailles dell’11 marzo scorso ha riconosciuto l’ampia portata degli effetti che la guerra avrà sulla struttura e sulla governance dell’economia europea[20]. Nella Dichiarazione, i leader dell’UE hanno definito l’aggressione russa contro l’Ucraina una “scossa tellurica nella storia dell’Europa”.

La Dichiarazione ha individuato nella sicurezza un bene pubblico comune fondamentale, stabilendo le tre condizioni per raggiungerla: ridurre la dipendenza energetica, rafforzare le capacità di difesa e costruire una base economica più solida.

L’adattamento al nuovo stato delle relazioni politiche e commerciali internazionali sarà costoso e richiederà investimenti cospicui.

Le risorse finanziarie necessarie per la transizione “verde” sono ingenti se si considerano tutte le componenti degli investimenti – tra cui l’energia pulita e l’efficienza energetica – e se si includono i settori sia privato sia pubblico.

Già prima dell’invasione dell’Ucraina, la Commissione europea stimava che per conseguire gli obiettivi climatici fissati dall’UE per il 2030[21] sarebbero stati necessari investimenti nel settore energetico pari a 402 miliardi di euro (il 2,9 per cento del PIL europeo nel 2019) all’anno in media per il decennio 2021-2030[22]. Rispetto al decennio precedente, ciò avrebbe comportato un incremento del fabbisogno annuo pari in media a circa 220 miliardi di euro.

Nell’ambito delle misure volte a raggiungere i propri traguardi climatici, l’UE ha inoltre stabilito l’obiettivo aggiuntivo di ridurre progressivamente, fino ad annullarla entro il 2030, la sua dipendenza dai combustibili fossili importati dalla Russia. A tal fine, la Dichiarazione di Versailles ha incaricato la Commissione europea di predisporre un nuovo ambizioso programma, denominato REPowerEU. Il programma sarà definito entro il maggio di quest’anno, e le stime degli ulteriori costi che esso determinerà non sono ancora disponibili; dalle sue linee generali si evince tuttavia che gli oneri saranno assai ingenti[23].

Le risorse che gli Stati membri assegnano alla difesa sono anch’esse destinate ad aumentare in misura significativa. Se tutti i paesi dell’UE – inclusi quelli che della NATO non fanno parte – adottassero gli obiettivi della NATO e aumentassero la spesa per la difesa al 2 per cento del PIL, la spesa pubblica dell’UE aumenterebbe dello 0,7 per cento del prodotto. Per l’area dell’euro ciò equivarrebbe a una spesa aggiuntiva pari a 80 miliardi di euro all’anno.

I programmi appena descritti sono onerosi nel breve periodo, ma se adeguatamente realizzati conferiranno all’economia europea efficienza e capacità di tenuta. Una rapida transizione climatica ridurrebbe la dipendenza dalle fonti di energia estere e limiterebbe l’esposizione alle fluttuazioni dei prezzi dell’energia importata. Investimenti comuni europei minimizzerebbero il costo della ricerca in tecnologie verdi e della difesa, consentendo a tutti i paesi di beneficiare dell’innovazione.

Naturalmente, le esigenze di investimento europee non derivano unicamente dalla transizione ecologica, dall’autonomia e dalla diversificazione energetica e dalle spese militari. Nei prossimi anni l’Europa dovrà aumentare i suoi investimenti al fine di accelerare la trasformazione digitale, rafforzare il settore sanitario, espandere le attività di ricerca e sviluppo, accrescere la formazione di capitale umano e ridurre la dipendenza dalle importazioni di prodotti agricoli primari.

Queste tendenze influenzano da vicino il dibattito sulla governance europea. Se le responsabilità e i costi dei maggiori investimenti dovessero ricadere soltanto sulle spalle dei singoli Stati membri potremmo ritrovarci, a seconda dei paesi, con un volume di investimenti insufficiente o con un assottigliamento dello spazio fiscale. E potremmo assistere a un aumento della frammentazione finanziaria e della divergenza tra paesi.

La teoria del federalismo fiscale indica che un’attribuzione appropriata delle competenze di bilancio ai diversi livelli – quello europeo o quello nazionale – permetterebbe di conseguire economie di scala, tenendo conto al tempo stesso delle preferenze degli Stati membri.

Le responsabilità di bilancio andrebbero centralizzate solo se ciò generasse benefici superiori ai costi[24]. I benefici della centralizzazione includono le economie di scala e i guadagni di efficienza, nonché la capacità di tener conto delle possibili ricadute che le politiche di ciascuno Stato membro possono avere su altri paesi. I costi sono invece connessi con il rischio che politiche accentrate a livello europeo non riescano a tener adeguatamente conto delle eterogenee preferenze dei diversi paesi[25].

L’UE dovrebbe quindi produrre i beni pubblici che non possono essere offerti più efficacemente o in modo più efficiente a livello nazionale e per i quali le preferenze dei diversi paesi sono omogenee.

A mio avviso, questa categoria di beni include senza dubbio gli investimenti che ho elencato in precedenza.

La conseguente allocazione a livello europeo di maggiori risorse di bilancio su base permanente consentirà ulteriori progressi verso la realizzazione di un’unione fiscale europea.

In linea con quanto a suo tempo prefigurato da Monnet, la crisi ci offre quindi l’occasione per rafforzare la capacità fiscale a livello europeo e di utilizzarla per fornire agli Stati Membri beni pubblici comuni senza trascurare obiettivi di “first-best” quali la condivisione ottimale dei rischi, la stabilizzazione anticiclica, il rafforzamento della crescita e della convergenza.

Riconoscere che l’idea che l’UEM possa funzionare senza una capacità fiscale centralizzata è semplicemente un’illusione ci consentirebbe di correggere lo squilibrio che caratterizza l’assetto istituzionale dell’eurozona, in cui una politica monetaria unica coesiste con una politica fiscale frammentata lungo linee nazionali.

Progressi in questa direzione rafforzerebbero la capacità di contrastare shock sistemici quando i tassi di interesse sono al loro limite inferiore[26] e di rispondere a shock idiosincratici che possono emergere nell’incerto quadro economico creato dalla guerra[27].

Un ampliamento della capacità fiscale a livello europeo agevolerebbe altresì la revisione delle regole fiscali di Maastricht, che potrebbero concentrarsi sul rafforzamento della capacità delle politiche di bilancio nazionali di rispondere in modo anticiclico agli shock che colpiscono le loro economie. Ciò richiede di accumulare, durante le fasi congiunturali positive, riserve fiscali a livello nazionale che potrebbero poi essere utilizzate durante le fasi cicliche sfavorevoli.

3.2 Proteggere l’economia dagli shock globali: politica monetaria e politica fiscale

La pandemia e l’ordine economico generato dalla guerra sollevano sfide anche per la politica monetaria.

L’economia europea ha subito una successione senza precedenti di shock negativi che stanno comprimendo la crescita e alimentando l’inflazione[28].

L’uscita dalla pandemia aveva già determinato forti rincari dei prodotti energetici e delle materie prime; aveva inoltre fatto emergere strozzature di offerta che avevano innalzato i prezzi dei beni durevoli.

L’invasione russa dell’Ucraina sta ora accentuando questi andamenti[29].

I prezzi del petrolio e del gas rimarranno a lungo elevati e soggetti a forte incertezza sia perché la Russia è tra i maggiori esportatori mondiali di questi prodotti, sia perché l’Europa è il principale acquirente di energia dalla Russia, oltre che l’area che da essa dipende di più per le forniture energetiche.

I prezzi dei beni alimentari potrebbero aumentare ancora. Insieme, la Russia e l’Ucraina rappresentano il 25 e il 17 per cento delle esportazioni mondiali di frumento e di mais, rispettivamente. E la Russia è uno dei principali fornitori globali delle materie prime utilizzate per produrre fertilizzanti.

I mercati di altre materie prime sono anch’essi influenzati. Ad esempio, alla Russia fa capo il 20 per cento delle vendite mondiali di vanadio, cobalto e palladio, utilizzati per produrre stampe 3D, droni, robot, semiconduttori e convertitori catalitici. La Russia e l’Ucraina sono tra i maggiori esportatori di minerali ferrosi e nichel, impiegati nell’industria del ferro e dell’acciaio.

Le conseguenze economiche di questi shock sono rilevanti e si stanno accumulando nel tempo[30]. Per l’eurozona, l’effetto del rincaro del petrolio e del gas è simile a quello che sarebbe determinato da una gravosa “tassa sulle ragioni di scambio”. Il trasferimento di potere di acquisto in favore del resto del mondo ha raggiunto il 3,5 per cento del PIL dell’area dell’euro nel quarto trimestre del 2021 rispetto alla fine del 2020. In termini assoluti, la perdita stimata è di circa 440 miliardi di euro in un anno[31].

Questi rincari si stanno ripercuotendo sui consumatori, erodendo il loro reddito reale e comprimendo la domanda. Non potendo agevolmente ridurre i consumi di prodotti alimentari ed energetici in risposta all’incremento dei prezzi[32], le famiglie dovranno tagliare i consumi di altri prodotti, con effetti depressivi sull’intera economia. Ne risentiranno soprattutto i nuclei familiari a basso reddito, per i quali i beni alimentari ed energetici assorbono una quota elevata delle entrate.

Gli indicatori economici di anticipo segnalano che questa distruzione di domanda è già in atto. In marzo la fiducia dei consumatori ha registrato il secondo maggior calo di tutti i tempi. Inoltre, il rialzo dell’inflazione e il rallentamento dell’economia stanno spingendo le famiglie a ridimensionare i piani di spesa. Le aspettative delle imprese circa l’attività nei prossimi dodici mesi sono anch’esse fortemente peggiorate, prefigurando una caduta degli investimenti.

Nel complesso, la crescita nel 2022 deriverà principalmente dall’effetto meccanico del rimbalzo del PIL dal suo livello minimo[33]. La variazione del reddito nei prossimi trimestri sarà invece assai bassa, e potrebbe risultare negativa a causa dell’impatto della guerra, che potrebbe determinare conseguenze durature.

Quale ruolo può svolgere la politica monetaria in un tale contesto? Vi sono tre elementi fondamentali.

In primo luogo, occorre spiegare chiaramente al pubblico la natura degli shock inflazionistici che stiamo registrando e cosa può fare in concreto la politica monetaria per attenuarne gli effetti.

L’attuale aumento dell’inflazione è dovuto soprattutto a fattori globali – quali il rincaro del petrolio, del gas e delle altre materie prime – su cui la politica monetaria può influire in misura limitata. Esso non è invece dovuto al fatto che la crescita congiunturale supera quella potenziale, generando un eccesso di domanda che potrebbe essere contrastato inasprendo la politica monetaria.

In secondo luogo, proprio per questa ragione contrastare l’aumento dell’inflazione con la sola politica monetaria in presenza di aspettative di inflazione ben ancorate sarebbe molto costoso. L’inasprimento monetario non influirebbe direttamente sul costo delle importazioni di beni alimentari ed energetici, che viene determinato da fattori globali e ora anche dalla guerra. La politica monetaria dovrebbe invece soffocare la domanda interna al fine di ridurre l’inflazione. Ciò significherebbe comprimere in misura considerevole l’attività reale, l’occupazione, i salari e i redditi, amplificando l’attuale caduta del reddito reale. Dato l’alto livello dell’inflazione importata, per ricondurre l’inflazione complessiva al 2 per cento, l’inflazione interna dovrebbe divenire fortemente negativa[34]. In altre parole, dovremmo provocare una deflazione interna.

In questa situazione, interventi monetari e fiscali coerenti tra loro allevierebbero il costo della disinflazione. In un contesto di calo dei redditi reali[35], la politica fiscale può frenare la dinamica dei prezzi intervenendo per contenere gli effetti dei rincari dell’energia, ad esempio riducendo le imposte indirette o aumentando gli aiuti alle famiglie più colpite. Interventi pubblici dal lato dell’offerta potrebbero inoltre contribuire a riassorbire – mediante investimenti diretti, incentivi o interventi normativi – il persistente disallineamento tra domanda e offerta che si registra in più settori.

La politica monetaria farà la sua parte, adeguando il proprio orientamento alle prospettive dell’inflazione di medio termine. A tal fine essa deve assicurare che i suoi impulsi siano trasmessi in maniera omogenea in tutta l’area dell’euro, contrastando fenomeni di frammentazione finanziaria che potrebbero ostacolare i necessari interventi monetari e fiscali[36].

Tuttavia – e questo è il terzo elemento – in base al nostro mandato di garantire la stabilità dei prezzi, non esiteremmo a inasprire le condizioni monetarie qualora le pressioni inflazionistiche provenienti dall’estero dovessero alimentare l’inflazione interna, provocando un disancoraggio delle attese di inflazione o un’accelerazione dei salari incoerente con il nostro obiettivo di inflazione e con gli incrementi di produttività.

Attualmente non vi è evidenza di questi effetti di secondo livello. Essi potrebbero non emergere alla luce sia della credibilità della nostra politica monetaria antinflazionistica, che contribuisce a mantenere ancorate le aspettative circa la dinamica futura dei prezzi, sia dell’eccezionale livello dell’incertezza, che potrebbe spingere i lavoratori a privilegiare la sicurezza del posto di lavoro rispetto ad aumenti salariali. Per il momento, quell’incertezza continua a richiedere interventi cauti e progressivi nell’adeguamento della politica monetaria[37].

Conclusioni

Voglio concludere ricordando ai giovani studenti che sono in questa sala che a un passo da qui, a Monte Cassino, settantotto anni fa c’era la guerra. Nella valle intorno a noi, la tragedia della Seconda guerra mondiale costò la vita a migliaia di italiani – molti dei quali civili – oltre che tedeschi, francesi, polacchi, inglesi, americani. E molti altri ancora.

Oggi Monte Cassino è tornata alla vocazione che i monaci le avevano assegnato: un luogo di meditazione e di studio. E di questo dobbiamo ringraziare il progetto europeo.

La guerra che ancora oggi si combatte non lontano da noi ci ricorda l’inestimabile beneficio che abbiamo tratto dall’integrazione europea: tre quarti di secolo di pace, in cui abbiamo costruito il nostro benessere.

Gli ucraini lo sanno bene. Essi lottano per il proprio Paese e per le libertà fondamentali a cui tutti teniamo. E vogliono aderire all’Unione europea per ottenere pace, libertà e prosperità.

Coloro che ci hanno preceduto hanno costruito il progetto europeo con pazienza: per noi, e per chi verrà dopo di noi. La loro speranza era che le generazioni successive avrebbero anch’esse contribuito a rimuovere le divisioni del passato.

Per questo motivo, non dobbiamo soltanto chiederci cosa sta facendo l’Europa per noi. Dobbiamo anche chiederci cosa noi possiamo fare per l’Europa.

Nella mia posizione attuale, rivolgo di frequente a me stesso questa domanda, che oggi rivolgo a voi. La mia risposta è che dobbiamo partecipare attivamente al dibattito europeo, per contribuire a costruire un’Unione europea che agisca nell’interesse di tutti.

La Dichiarazione di Versailles rinnova le ambizioni europee. Dobbiamo contribuire, ciascuno con la propria cultura, a dare forma a quelle ambizioni, forti della nostra storia comune.

Dobbiamo essere consapevoli della portata della sfida. Se vogliamo rafforzare la nostra capacità di difesa, affrancarci dalla dipendenza energetica, costruire una base economica solida e promuovere la crescita e l’occupazione dobbiamo proseguire il cammino di integrazione economica. E impegnarci perché le politiche fiscali e monetarie sostengano i necessari investimenti comuni.

Per questo vi sarà bisogno della vostra energia, delle vostre idee, della vostra passione.

Grazie per l’attenzione.

  1. Si veda Panetta, F. (2017), “The Legacy of the Treaties of Rome for Today’s Europe”, intervento in occasione della mostra itinerante per il 60° anniversario dei Trattati di Roma, 21 marzo.
  2. Si veda Lehtimäki, J., Sondermann, D. (2021), “Baldwin versus Cecchini revisited: the growth impact of the European Single Market”, Empirical Economics. L’analisi evidenzia un PIL reale pro capite più elevato per l’intera area del mercato unico di circa il 12-22 per cento. Si veda anche Badinger, H. (2005), “Growth Effects of Economic Integration: Evidence from the EU Member States”, Review of World Economics, vol. 141, n. 1, pagg. 50-78.
  3. Le esportazioni all’interno dell’area dell’euro sono cresciute dal 13,9 per cento del PIL dell’area nel 1999 al 17,7 nel 2021.
  4. Si veda Cigna, S., Gunnella, V. e Quaglietti, L. (2022), “Global Value Chains: Measurement, Trends and Drivers”, Occasional Paper Series, n. 289, BCE, Francoforte sul Meno, gennaio.
  5. Si veda Panetta, F. (2021), “Monetary autonomy in a globalised world”, intervento alla conferenza congiunta Banca dei Regolamenti Internazionali, Banca d’Inghilterra, BCE, Fondo monetario internazionale dal titolo “Spillovers in a post-pandemic, low-for-long world”, Francoforte sul Meno, aprile.
  6. Il Trattato sull’Unione europea (articolo 42, paragrafo 7) prevede inoltre che “qualora uno Sato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite”. Tale clausola è stata richiamata nella Dichiarazione di Versailles dei capi di Stato e di governo dell’UE dell’11 marzo.
  7. Monnet, J. (1978), Memoirs, Collins, Londra.
  8. Da un punto di vista operativo, l’avvio del Meccanismo di vigilanza unico fu invece un successo.
  9. Nell’ambito del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà sufficiente.” Si veda Draghi, M. (2012), Intervento alla Global Investment Conference di Londra, 26 luglio.
  10. Si vedano Van Rompuy, H. (2012), “Towards a genuine economic and monetary unionRapporto dei quattro presidenti”, rapporto del Presidente del Consiglio europeo (noto come “”), e Juncker, J.-C. in stretta collaborazione con Tusk, D., Dijsselbloem, J., Draghi, M. e Schulz, M. (2015), “The Five Presidents’ Report: Completing Europe’s Economic and Monetary Union”, Commissione europea, che hanno definito una prospettiva per costruire un’autentica Unione economica e monetaria.
  11. Si veda Panetta, F. (2020), “Perché una risposta comune europea delle politiche di bilancio è nell’interesse di tutti”, contributo pubblicato da Politico il 21 aprile.
  12. L’Unione europea ha adottato altre iniziative per fronteggiare la crisi. In particolare, ha introdotto (i) uno strumento fiscale comune a livello europeo per un totale di 100 miliardi di euro al fine di mitigare i rischi di disoccupazione in caso di emergenza (SURE); (ii) un fondo europeo di garanzia di 25 miliardi di euro gestito dalla Banca europea per gli investimenti, volto a mobilitare finanziamenti aggiuntivi fino a 200 miliardi di euro per il settore privato; (iii) una linea di credito del Meccanismo europeo di stabilità fino a 240 miliardi di euro, a copertura dei costi diretti e indiretti di assistenza sanitaria, cura e prevenzione sostenuti dai governi a causa della crisi del COVID-19.
  13. Il Dispositivo per la ripresa e la resilienza è lo strumento chiave dell’NGEU e mette a disposizione 723,8 miliardi di euro sotto forma di prestiti e sovvenzioni per sostenere le riforme e gli investimenti degli Stati membri. L’NGEU è stato specificamente concepito per mitigare l’impatto economico e sociale della pandemia di COVID-19 e rendere le economie e le società europee più sostenibili, resilienti e meglio preparate per le sfide e le opportunità della transizione verde e digitale.
  14. Si veda Panetta, F. (2021), “Dopo la crisi: le lezioni economiche della pandemia”, contributo pubblicato da Politico il 27 luglio.
  15. Bańkowski, K., Bouabdallah, O., Domingues Semeano, J., Dorrucci, E., Freier, M., Jacquinot, P., Modery, W., Rodríguez Vives, M., Valenta, V. e Zorell, N. (2022), “The economic impact of Next Generation EU: A euro area perspective”, Occasional Papers Series BCE, di prossima pubblicazione.
  16. Oltre al PEPP, la BCE ha attuato misure volte a rendere più favorevoli le condizioni delle operazioni di rifinanziamento a più lungo termine e a rendere temporaneamente meno stringenti i criteri di accettazione delle garanzie.
  17. Si veda Panetta, F. (2020), “Un impegno per la ripresa”, intervento al Rome Investment Forum, 14 dicembre.
  18. Si veda BCE (2021), “Monetary-fiscal policy interactions in the euro area”, Occasional Paper Series, n. 273, Francoforte sul Meno, settembre.
  19. Si veda Panetta, F. (2020), “Asymmetric risks, asymmetric reaction: monetary policy in the pandemic”, intervento alla riunione del Money Market Contact Group della BCE, Francoforte sul Meno, settembre.
  20. Riunione informale dei capi di Stato o di governo, Dichiarazione di Versailles, 10 e 11 marzo 2022.
  21. Il pacchetto “Fit-for-55” mira a ridurre nell’UE le emissioni di gas serra entro il 2030 in misura pari ad almeno il 55 per cento rispetto ai livelli del 1990. Esso include proposte volte a rivedere e aggiornare la legislazione in materia e ad attuare nuove iniziative per allineare le politiche dell’UE con gli obiettivi climatici concordati dal Consiglio e dal Parlamento europeo.
  22. Questo importo esclude sia gli investimenti energetici nel settore dei trasporti, che sono molto cospicui (circa 650 miliardi di euro), sia gli “investimenti ambientali più ampi” quali la tutela ambientale e la gestione delle risorse (130 miliardi di euro). Includendo queste ulteriori componenti l’ammontare degli investimenti verdi nel periodo 2021-2030 ammonterebbe all’anno in media a 1.200 miliardi di euro (8 per cento del PIL), con un incremento annuo di 520 miliardi di euro rispetto alla media annuale del decennio precedente. Per maggiori informazioni si rimanda a Commissione europea (2021), “Commission staff working document. Impact assessment report”, e Commissione europea (2022), “Towards a green, digital and resilient economy: our European Growth Model”.
  23. Il programma REPowerEU prevede di ridurre di un ulteriore 55 per cento l’utilizzo del gas fossile entro il 2030 rispetto alle proposte del pacchetto “Fit-for-55” e di migliorare la resilienza del sistema energetico dell’UE sulla base di due linee di azione principali: (i) diversificazione delle forniture di gas e (ii) più rapida riduzione della dipendenza dell’UE dai combustibili fossili. La Commissione individuerà, in collaborazione con gli Stati membri, i progetti idonei a conseguire questi obiettivi attingendo a risorse nazionali e dell’UE. Gli investimenti pubblici agiranno da catalizzatore per i finanziamenti privati.
  24. Oates, W.E. (1999), “An Essay on Fiscal Federalism”, Journal of Economic Literature, vol. 37, pagg. 1120-1149.
  25. Si veda Tiebout, C. (1956), “A Pure Theory of Local Expenditures”, Journal of Political Economy, vol. 64 (5), pagg. 416-424.
  26. Nel linguaggio degli economisti si fa riferimento al cosiddetto effective lower bound dei tassi d’interesse.
  27. Si veda Fahri, E. e Werning, I. (2017), “Fiscal Unions”, American Economic Review, vol. 107, n. 12, dicembre.
  28. Si veda Panetta, F. (2021), “Patient monetary policy amid a rocky recovery”, intervento all’Università Sciences Po, 24 novembre.
  29. Si veda Panetta, F. (2022), “A piccoli passi, nell’oscurità: la politica monetaria all’indomani della pandemia”, intervento al seminario online organizzato dal Robert Schuman Centre for Advanced Studies e dalla Florence School of Banking and Finance presso l’Istituto universitario europeo, 28 febbraio.
  30. Si veda Panetta, F. (2021) e Panetta, F. (2022), op. cit.
  31. Gunnella, V., Schuler, T. (2022), “Implications of the terms of trade deterioration for real income and the current account”, Bollettino economico, numero 3, BCE, di prossima pubblicazione. Le cifre del testo si riferiscono al deterioramento delle ragioni di scambio negli ultimi 12 mesi. Sui 24 mesi a partire dal quarto trimestre del 2019 la perdita di reddito netta per l’area dell’euro sarebbe invece pari all’1,2 per cento del PIL; si veda Lagarde, C. (2022), “Finding resilience in times of uncertainty”, intervento all’evento organizzato dalla Central Bank of Cyprus, Nicosia, 30 marzo.
  32. In termini economici, i beni alimentari ed energetici sono caratterizzati da una bassa elasticità della domanda al prezzo.
  33. In economia si parla di “effetti di trascinamento”, che per il 2022 sono stimati nell’ordine dell’1,9 per cento.
  34. A fini puramente illustrativi, al fine di ottenere un tasso di inflazione complessiva pari al 2 per cento nello scorso febbraio (invece del 5,9 per cento effettivamente realizzato), dato il livello dell’inflazione importata (7,9 per cento), l'inflazione domestica avrebbe dovuto essere pari a -7,5 per cento. L'inflazione domestica è data dal tasso di inflazione rilevato sulle componenti dell'indice dei prezzi al consumo aventi un contenuto di importazioni inferiore al 15 per cento, mentre l’inflazione importata include le rimanenti voci (quelle con un contenuto di importazioni pari o superiore al 15 per cento). Si veda Fröhling, A., O'Brien, D. e Schaefer, S. (2021), "A new measure for domestic inflation in the euro area", mimeo. I prodotti con basso contenuto di importazioni hanno un peso sull'Indice Armonizzato dei Prezzi al Consumo pari al 38,2 per cento, a fronte del 61,8 per cento degli altri prodotti.
  35. A differenza di quanto osserviamo oggi, dopo l’embargo sul petrolio imposto dall’OPEC nell’ottobre del 1973 il reddito disponibile reale continuò a crescere: nel primo trimestre del 1974 esso risultava ancora in aumento dell’1,8 per cento su base annua.
  36. Si veda Panetta, F. (2022),op. cit.
  37. Si veda Panetta, F. (2021), op. cit.
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